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Le immagini del dolore: discernimento, euristica, slacktivism

È veramente un dibattito nuovo ed utile quello che riguarda la pubblicazione delle immagini forti sulle prime pagine dei media tradizionali? No, non lo è per nulla. E’ una questione in realtà piuttosto stantia, che già animava gli intellettuali quando furono ritrovati i cadaveri di Pasolini e Moro, o di quando dal Vietnam arrivarono le immagini della devastazione provocata dal napalm. Fondamentalmente, ha poco senso discettare della opportunità o meno di pubblicare il piccolo Aylan, inerme sulla spiaggia di Bodrum: si tratta di una scelta editoriale. Sciacallaggio? No, vi prego, ritorniamo a discernere. Ciò che ha attraversato la testa dei giornalisti del Guardian – tra gli altri, che hanno deciso di farvi la prima pagina, sarà stato: “Ha senso mostrare tanto dolore? Può cambiare qualcosa? Può sensibilizzare, può smuovere l’Unione Europea?”. Ciò che hanno scritto è: “Se non lo fa questa immagine, nient’altro lo farà”.

Un passo indietro: precisamente una settimana fa abbiamo assistito alla notizia dell’omicidio folle dei due giornalisti del Virginia, da parte del fu collega Flanagan. Abbiamo discusso della mediatizzazione di un gesto già volutamente mediatico, cioè la ripresa in diretta dello stesso pluriomicidio, subito pubblicata  sui canali social e divenuta virale. L’abbiamo giudicata fondamentalmente sbagliata, quella disintermediazione degli assassini, veicolata da una stampa che non controlla minimamente i flussi online e che spesso fa un uso spietato – o goffo: quale delle due è peggio? – dello strumento social network.

Perché quella sì e questa no? Perché Flanagan ha sì ucciso per l’odio nei confronti di due persone, o – a suo dire – per vendicare la strage di neri a Chesterton, ma ha ripreso per umiliare, per la ricerca folle di un destino da celetoid, un surrogato della celebrità, di misura globale. Ripubblicare la sua “opera”, perché di un terribile artefatto si parla quando si considera quel video a mo’ di videogioco sparatutto, significava solo assecondarlo, senza aggiungere nulla: delle dinamiche di un qualsiasi tipo di assassinio sappiamo ormai teoricamente e praticamente tutto. Lo stesso discorso vale per l’ISIS, “una realtà che ti vorrebbe comunicare e ci sta riuscendo benissimo”, che riesce a farsi “disintermediare” senza alcuno sforzo. Grazie al nostro gusto dell’orrido, forse, il quale non ci fa comprendere che (far) vedere ancora un altro, dopo i primi due, tre o quattro, video di uno sgozzamento, forse, non serve a nulla.

Ieri poi, si è discusso anche di altre immagini, quelle dei poliziotti cechi che “marchiano” con il pennarello i profughi in arrivo, che rievocano scenari tanto mostruosi quanto diversi dal punto di vista della genesi e della situazione storico-politica. Perché il “marchio” fatto a inchiostro sulla pelle dei Siriani ci ricorda quello impresso ai prigionieri dei campi nazisti? È una questione di euristiche: la valanga di informazioni alle quali siamo esposti ogni giorno obbliga il nostro cervello a percorrere scorciatoie di pensiero per non affaticarsi e per completare un giudizio o una decisione più velocemente. Il gesto del marchiare si collega ad un altro, dallo stesso valore simbolico: il più disponibile (da qui euristica della disponibilità) nelle nostra memoria e nella nostra coscienza collettiva. In questo specifico caso si tratta del marchio impresso ai prigionieri dei campi di concentramento. Dove ci porta una giudizio così rapido? Ci fa muovere, o solo impressionare?

A mostare Aylan non si asseconda nessuno. A mostrare Aylan si compie un atto politico. Sangue, merda, morte. A *guardare* Aylan si può, forse, piombare per qualche secondo in una voragine di responsabilità storiche, piuttosto che nella mente malata di un folle, o nella propaganda senza scrupoli di una rampante organizzazione politico-militare. Mostrare Aylan è, ancora, una pura e semplice scelta editoriale. E allora forse il ragionamento, il dibattito – anzi no, smettiamola per una volta di dibattere, la domanda, più che rivolta al presunto “sciacallaggio” del media tradizionale, va rivolta più a noi stessi: cosa ne facciamo delle nostre emozioni, della nostra sensibilità eventualmente turbata, di immediate associazioni come quella coi campi di concentramento? Cosa facciamo, da oggi, dopo che ieri sera abbiamo visto quelle foto? Ci dividiamo nelle nostre tribù politiche, dando modo a quello con la voce più grossa di strumentalizzarlo? Oppure ci dedichiamo a un po’ di slacktivism, quel misto di indignazione e rabbia espressa tramite un semplice like, o share, parole sprecate? Siamo ancora capaci del discernimento, anche di quello che non ci fa mettere sullo stesso piano assassini e bambini?

Il nostro essere diventati ognuno dei piccoli media a sé stanti, più o meno autonomi, più o meno onesti intellettualmente, più o meno consapevoli, ci sta facendo scontrare non tanto sulle cause e le soluzioni di una tragedia umanitaria, ma sull’opportunità o meno di esibire in bacheca la foto di Aylan: su questo prende consistenza, consenso, a volte potere, chi rozzamente taglia con l’accetta. L’antidoto? È solo questo.

@nicoloscarano
@PENN0NE

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