Articolo pubblicato su L’Unità del 21.11.2015.
Venerdì 13 novembre, alle 21.30, mi trovo negli studi de La7 per partecipare a “Bersaglio mobile”. Alle prime notizie da Parigi, Enrico Mentana parte con lo speciale Tg che durerà fino a notte tarda. Dietro le quinte, Peter Gomez ed io ci diciamo che la serata rimarrà visivamente scolpita nella nostra memoria (proprio nel senso del “dove mi trovavo quando…”), come è avvenuto a tutti noi in occasione di analoghi, tragici avvenimenti (nel mio caso il rapimento di Moro, il terremoto dell’80, la morte di Falcone, l’11 settembre sono i primi eventi che mi vengono in mente).
Possiamo definirli come dei veri e propri “momenti zero”. Li ricordiamo perché legati a un’informazione che sopraggiunge all’improvviso e si inserisce con prepotenza nei nostri schemi mentali, monopolizzando l’agenda dei temi salienti nella nostra memoria per le settimane successive. Ricordi dotati di una fortissima carica affettiva e capaci di generare svariati bias.
LA SEMPLIFICAZIONE DELLE EMOZIONI
Come è evidente, in casi del genere l’emozione che più immediatamente ci prende è la paura. Nel caso degli attentati di venerdì scorso, la paura di vivere personalmente o da vicino qualcosa di simile a quello che è accaduto a Parigi. La paura di non saper individuare i potenziali pericoli, o di non distinguerli dal resto del rumore della vita quotidiana. Un macro-bias alimentato dalle espressioni-chiave della narrazione mediatica che prende corpo: il “terrore islamico”, lo “stato di emergenza” e – soprattutto – il “siamo in guerra”, tre paroline scandite e ripetute ossessivamente (anche in versione domanda-tormentone, dalla Gruber lunedì sera ad Otto e Mezzo: “Siamo in guerra? Dopo la pubblicità”). E’ di fronte a questa paura che perdiamo di vista le domande importanti e vere “(Come è possibile che sia successa una cosa del genere?”, “Da dove nasce questa emergenza?”, “Come capire ed affrontare il terrorismo?”) per sostituirle con altre, meno complesse e più immediate (“Come posso proteggermi?”; “Chi mi fa paura?”; “Chi è il nemico?” e “Come lo anniento?”). Con l’illusione di potere fornire una pronta risposta, come per colmare un vuoto insopportabile.
LE TIFOSERIE VINCONO IN TV
Grazie a questa semplificazione, ognuno può darsi risposte rassicuranti e rispecchiarsi in quelle del prossimo, a maggior ragione se similmente incompetente. Il fenomeno viene esaltato dalle Tv, nei giorni successivi agli attentati. Può apparire paradossale, ma quando (martedì 17, ad Otto e Mezzo) appaiono esperti come il generale Arpino o Paolo Magri, direttore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, gli ascolti calano sensibilmente (dal 1.600mila del giorno prima a 1.270mila); mentre Quinta Colonna, programma con target e ospiti popolar-populisti, acquista, nella puntata post-Parigi, ben 500mila spettatori in più. La via di mezzo, che tiene in equilibrio il minimo sindacale di approfondimento con le pulsioni della pancia, è rappresentata dall’invasione degli schermi da parte dei politici. Da sabato 14 a giovedì 19 (nei soli talk show serali delle 7 reti generaliste, ed escludendo Tg e speciali vari) entrano in scena, oltre a 22 giornalisti, ben 30 (trenta!) politici e solo 8 esperti. Eppure si parla di temi altamente specialistici, che richiedono elevate conoscenze specifiche, in campo strategico, militare, diplomatico e della sicurezza. Il dibattito pubblico va così incontro alle esigenze di rassicurazione delle tifoserie, più che soffermarsi su un’analisi attenta di quanto è avvenuto. Mentre in Francia, almeno nei primi giorni, non solo i politici fanno fronte comune contro il nemico senza perdersi in polemiche di bottega, ma quasi non si vedono in Tv: il grosso dello spazio è riservato ad opinionisti e persone competenti.
GLI SPALTI FINTI DELLE PERIFERIE
Quando poi le telecamere escono dagli studi, ci si sposta tra gli ultras delle periferie segnate dal degrado. Quinta Colonna va in una rosticceria siriana di Centocelle, e mette in scena un tentato (presunto) assalto (non ripreso dalla Tv) di un centro sociale, non si capisce contro chi e che cosa. Ballarò affronta l’hinterland milanese, dove c’è disagio, anche se pare non abbia nulla a che fare con l’Islam. La Gabbia torna nel luogo-cult di Torpignattara, trovandoci soltanto residenti incazzati e ragazzini immigrati di seconda generazione. Stop. Nessun fucile, nessuna bomba, nessun terrorista. E quasi nessun musulmano. Ma – nel contesto dato – spaccio, sporcizia e disservizi si trasformano facilmente nel brodo primordiale da cui nascono le cellule dell’ISIS. Ogni periferia è potenzialmente una banlieue, anche se sulla Casilina i musulmani residenti cadono dalle nuvole se gli si parla dei loro omologhi francesi.
I BIAS DELL’OMOGENEITA’
La Tv italiana – più che mai cruciale veicolo dell’informazione mainstream, dal ‘momento zero’ in poi – finisce quindi per assecondare e vellicare le nostre paure, favorendo la tendenza spontanea di tutti noi a definire gruppi sociali nei quali includerci per sentirci più al sicuro (ingroup), che ha come inevitabile pendant la costruzione di un outgroup, di cui fanno parte tutti gli altri. Per definizione, ingroup e outgroup sono soggetti ai cosiddetti bias di favoritismo o sfavoritismo, in base ai quali gli “altri” sono sempre più cattivi o meno bravi di “noi”. Provate a ripensare al racconto dei media di questi giorni di tragedia, e a come in particolare si manifesti il bias dell’omogeneità dell’outgroup. Appena sbarcato tra noi, un extraterrestre che accendesse oggi la Tv, individuerebbe senza ombra di dubbio i musulmani in quanto tali come pericolosi terroristi. Lo dicono implicitamente, o lo lasciano intendere, gli ospiti dei talk in prima serata, raccoglitori e interpreti di stereotipi privi di ogni elaborazione. L’inesorabile confronto quotidiano tra l’ubiquo Salvini e il rappresentante di qualche comunità islamica si presenta strutturalmente asimmetrico: da una parte c’è il nostro consolidato e pacifico modello di vita in giacca e cravatta aggredito fin dentro casa, dall’altra un nemico fisicamente assente ma “idealmente” rappresentato da un suo succedaneo, rigorosamente con barba, magari con velo se donna. Emblematica, in questo senso, la violenta e interminabile “gag” tra Santanché, Zaia e il giovane musulmano accusato di non mostrarsi abbastanza scosso dai fatti di Parigi. “Condanna! Condanna! Condanna!” diventa un urlo virale anche sui social network, e la scena si ripete pressocché identica dopo la mezzanotte di giovedì sera, con gli acuti di Mario Giordano a Piazza Pulita rivolti ad alcune giovani musulmane di Roma. Insomma, un’incessante narrazione a senso unico che prevede solo il “noi” e “gli altri”, con un ovvio vincitore.
L’ILLUSIONE DI CAUSALITÀ
In alcuni servizi, poi, saltano gli schemi della ragione, proprio come i palinsesti, e si costruiscono indimostrabili correlazioni di causalità: a Ballarò il vicepresidente di Federalberghi denuncia, con tanto di foglio Excel tra le mani, un basso numero di prenotazioni per i primi giorni del Giubileo. Il dato viene fatto passare, di default, come una conseguenza degli attentati di Parigi. Analogo servizio, fatto quindici giorni fa, avrebbe magari attribuito il dato preoccupante alla caduta di Marino. E forse, un mese fa, responsabile sarebbe stata la sua presenza.
Non va meglio quando si analizza l’impatto degli attacchi con metodi cosiddetti scientifici. Il sondaggio di Alessandra Ghisleri per Ballarò, non andato in onda per motivi di tempo e raccontato dall’Huffington Post, registra un calo di preferenze per il PD e un aumento di consensi per il M5S. La tesi è che i dati dipendano dalle diverse reazioni dei leader (assenti, peraltro, nel caso dei grillini) agli attacchi di Parigi. Anche in questo caso si confonde una banale correlazione, dovuta ad un numero infinito di variabili politiche, con una causalità.
LA (NOTA) INATTENDIBILITA’ DEI SONDAGGI
A proposito di sondaggi. Non potevano certo mancare, in questi giorni. Anche se la prima regola, per ogni ricerca che si rispetti, sarebbe quella di “far depositare la polvere”. Cioè attendere, in particolare dopo un evento significativo, che le opinioni si sedimentino: solo a queste condizioni un sondaggio può avere un minimo di attendibilità. Le domande da bar sottoposte ai cittadini in questi giorni hanno invece un puro valore mediatico: non aggiungono nulla di nuovo a quanto già sappiamo parlando con chi ci serve il caffè. E sono scientificamente non fondate. Demopolis, per esempio, lavora tra il 16 e il 18 novembre su un campione di 1000 persone (lo 0,0016% degli italiani), chiedendo loro dei timori circa un attacco terroristico nel proprio comune. Anche un bambino capisce che, in un sondaggio sulle città, 1000 sondati – ponderati in maniera adeguata – non possono essere un campione rappresentativo del territorio italiano e dei suoi oltre 8000 comuni. Sempre tra il 16 e il 18 novembre, Demos&Pi chiede ai nostri poveri concittadini che opinione hanno di determinate religioni, se vogliono più sicurezza e se temono nuovi attentati. Domande palesemente scontate o assurde, cui rispondono 1010 eroi, mentre altri 9970 (oltre il 90% degli interpellati) si rifiutano di rispondere al questionario. Disintermediandosi da soli, vivaddio.
LA DISINTERMEDIAZIONE DEL TERRORE
La disintermediazione è anche una forte componente nella narrazione mediatica del terrore. Da più di un anno e mezzo i media ripubblicano per intero dichiarazioni presunte “ufficiali” dell’ISIS, estratte perlopiù da un social media difficilmente monitorabile – soprattutto da giornalisti pigri – come Twitter. Così come viene pigramente diffuso il loro materiale di propaganda: i loro terribili (veri??) video, le graficucce ornate di scimitarre e bandiere nere, i loro “prossimi obiettivi” – che poi sono le solite quattro città e monumenti, i più prevedibili e scontati. La disintermediazione vale anche sul fronte opposto: in condizione di ‘guerra’, sono le fonti più vicine quelle su cui fare cieco affidamento. Ad esempio, mezz’ora dopo il primo raid francese su Raqqa – inevitabilmente più intenso di quello delle scorse settimane – già veniamo a sapere, imboccati dalla comunicazione ufficiale dell’aviazione, che “non ci sono vittime civili”. Un calcolo impossibile da fare in così poco tempo, eppure spacciato per oro colato. Con l’aumentare del conflitto, il problema delle fonti, della paternità delle informazioni, diventa un fattore fondamentale da gestire, ma in maniera intelligente, per non finire con il fare favori a Daesh.
LO SPAZIO IMPAZZITO DEL WEB
Gli attentati, nella loro prolungata, tragica teatralità, non favoriscono il luogo principe della disintermediazione, il web. Il pubblico chiede realtà, la vuole servita calda, ne cerca almeno l’illusione, e mentre la Tv detta i tempi dell’evento in real time – breaking – ritrovando centralità con le interminabili dirette televisive, la rete appare una maionese impazzita. Totalmente inaffidabile, incapace di orientare, di fare agenda, e tantomeno di dare risposte: il racconto degli eventi sembra non avere ordine logico, né temporale. Disorienta, proprio quando abbiamo bisogno di bussole. I social media, soprattutto, tendono in momenti concitati ad essere fuorvianti e fonti di svariate ‘bufale’, oltre che di analisi improvvisate e irrazionali. Ci pensa Le Monde, poche ore dopo l’attentato, a svelare la bufala-web più clamorosa: un fantomatico raid di rappresaglia al campo profughi di Calais, fortunatamente mai avvenuto. Seguono le critiche sulle foto-profilo di Facebook con i colori della bandiera francese e le conseguenti sfiancanti polemiche sull’imparzialità del gigante social, come sul presunto slacktivism conformista che lo pervade. E poi il caos su Salah – ancora ricercato – e la fantomatica Seat nera nei pressi di Torino. Infine, quando il terrore si materializza nei luoghi e delle città che viviamo quotidianamente, arrivano i falsi allarmi – su cui ieri si è espresso giustamente Renzi – magari retwittati direttamente dai passeggeri della metro A. Non servono a niente i messaggi dell’account ufficiale dell’Atac per sentirci rassicurati: alla fine riaccendiamo sempre la Tv, anche in streaming dal computer.
LA PARADOSSALE RIVINCITA DEI QUOTIDIANI
Infine. Esonerati dall’antico e ormai inattuabile obbligo “istituzionale” di scovare notizie, scavalcati dalle breaking news delle Tv, al riparo dalle bufale del web smentite dopo un amen, la vera notizia della settimana post-Parigi è che i quotidiani rifiatano. Chiamati a discernere, a selezionare, ad analizzare, tornano finalmente al racconto ampio, al reportage, all’inchiesta. Approfondiscono, ospitano interviste di qualità. Magari fanno di necessità virtù, ma è certo che ritrovano uno spazio. Ed è un fatto che – mentre i bagliori delle Tv tendono a calare di intensità – dopo una settimana i maggiori quotidiani continuano a tenere sveglia l’attenzione sulle cause profonde del fenomeno jihadista, mettendo in campo opinioni anche molto diverse tra loro. Compiono in fondo un onesto disvelamento di tutte le nostre incertezze di fronte all’inedito. Un modo per tenere svegli i nostri cervelli, solitamente spenti di fronte all’oppressione delle cronache politiche nostrane, al momento relegate nelle poche righe che meritano. (Naturalmente, perché la buona stagione prosegua, non c’è da augurarsi nuovo terrore. Si possono fare bene anche in tempi di pace, i nostri amati giornali).
(Hanno collaborato Massimiliano Pennone e Nicolò Scarano)