Articolo pubblicato su L’Unità del 24.10.2015.
Al di là della gravità del fatto, l’omicidio del giovane albanese da parte del pensionato di Vaprio D’Adda ha prodotto un orribile rumore di fondo. Nei giorni scorsi politici e giornali se ne sono occupati come sanno. I primi con prese di posizione inumane (Salvini: non mi dispiace che il ladro sia morto), demagogiche (Maroni: la regione pagherà le spese per la difesa del pensionato), grottesche (Buonanno con la pistola mostrata in Tv), ridicole (le adunate KKK-style sotto casa dell’omicida). O con il pessimo silenzio della sinistra che ancora rimuove il problema della sicurezza (e – per esempio – dell’adeguamento delle norme sulla legittima difesa). Mentre i giornali hanno fatto la loro parte: titoloni sparati, commenti enfatici e lacrimosi. Sempre a prescindere. Con il solo obiettivo del framing giusto per l’occasione (bias di cui parleremo un’altra volta).
Ma il punto che qui ci interessa è un altro. E cioè: che cosa accade nella testa di una persona in presenza di una notizia così “gravida di senso” e fortemente pompata da politici e giornali? Come fa a giudicarla, su che basi si costruisce un’opinione? La risposta ovvia è che, per valutare correttamente, ci vorrebbero dati di cui il pubblico non dispone. Dall’interpretazione delle perizie balistiche, alla conoscenza approfondita della dinamica – luogo, timing, contesto – dell’incidente. Fino alle testimonianze, ai possibili moventi, alle prove: tutti gli elementi su cui gli inquirenti stanno lavorando e che saranno oggetto di un regolare processo (si spera presto).
Però questo non accade. In un caso simile chiunque, sotto il fuoco di fila mediatico, tende ad esprimere una valutazione. E lo fa, sollecitato dall’emozione suscitata dall’evento, prendendo la strada più semplice per formulare un giudizio, evitando gli ingorghi della ragione e del calcolo. Si fa guidare dalla cosiddetta euristica dell’affetto, in forza della quale il nostro cervello, quando è a corto di competenze specifiche, sostituisce le domande cui non sa rispondere con altre che richiedono informazioni basiche e minore fatica. Una semplificazione mentale che provoca errori sistematici, definiti bias dell’emozione.
La cosa funziona così, piuttosto semplicemente. La domanda “che cosa è successo all’interno di quella villa?” viene sostituita da “che cosa avrei fatto al posto dell’anziano pensionato?”. Cambiata la domanda, la risposta diventa agevole. Con un pizzico di immaginazione empatica, sull’onda delle emozioni, ci si spalanca davanti una velocissima autostrada cognitiva. La conclusione è immediata e banale, nella sua semplicità: “Avrei sparato anch’io”.
A quel punto la strada è spianata. La nostra reazione di default, amplificata e sorretta dal vortice di strepiti, deformazioni e strumentalizzazioni politico-mediatiche, entra a pieno titolo nel dibattito pubblico. Il leitmotiv ricorrente e generalizzante impazza: “Tutti in quella situazione avremmo avuto la stessa reazione, e allora che quella reazione diventi legge, prassi riconosciuta”. Diventiamo tutti partecipi e protagonisti dello showbiz. Le nostre opinioni di pancia diventano mainstream. E persino l’oscena sceneggiata Tv di Buonanno finisce per apparire plausibile.
Naturalmente basterebbe contare fino a dieci e riflettere, per arrivare alla conclusione che è doveroso discutere della sicurezza dei nostri concittadini, e si può pensare di correggere le norme che regolano la legittima difesa e il possesso di armi da fuoco. Ma che qualunque decisione va presa sulla base di analisi circostanziate, incrociando per esempio i numeri dei delitti e dei furti, valutando il tasso di violenza città per città, il rapporto tra numero di armi ed incidenti, calcolando insomma rischi e possibili benefici delle misure da assumere. Magari anche Buonanno (in questo caso mi faccio prendere dal bias dell’ottimismo) potrebbe spulciarsi alcuni dati Istat e farne tesoro. I numeri sono chiari. Ci dicono che, senza pistole e fucili sotto il cuscino, in Italia nel 2014 l’indice di delittuosità (il rapporto tra reati per numero di abitanti) è calato del 7,7%, con150mila delitti in meno rispetto al 2013. Mentre il dato disaggregato evidenzia una diminuzione degli omicidi (-11,7%) e delle rapine (-13%). In altre parole: il problema della sicurezza dei cittadini è serio, ma ha anche molto a che fare con la percezione che se ne ha. Politici e media dovrebbero affrontarlo con equilibrio e sobrietà (ma questo è un wishful thinking, altro bias di cui parleremo).
(Hanno collaborato Nicolò Scarano e Massimiliano Pennone)