Dopo anni di successi su una piattaforma “moderna”, e altrettanti di fallimenti su una piattaforma né carne né pesce, sostanzialmente inesistente, incarnata dalla guida annacquata e fallimentare di un Ed Miliband, i tuoi membri e sostenitori ti regalano un leader che supera il mainstream e parla dei temi del decennio, se non di una generazione: disuguaglianze, opportunità per tutti, messa in discussione delle élite (che non vuol dire “abbattimento indiscriminato delle élite”, ma “rigenerazione” delle stesse).
Il leader in questione, in tempi di disaffezione patologica nei confronti della politica, gode di un seguito semplicemente incredibile: migliaia di persone si iscrivono al partito, che segna un record nel numero di membri da più di trent’anni a questa parte, fiorisce una partecipazione attivissima, quasi pervasiva, sulla rete e non solo. Una rinnovata fiducia torna a riempire le sedi locali, le urne delle selezioni per gli organi interni, i luoghi del dibattito su ogni tema discusso in Parlamento e sui media.
Ma il leader ha un grosso problema: il gruppo parlamentare del suo stesso partito. Dal giorno della sua elezione, a parte pochi lealisti, i membri del Parlamento eletti durante le elezioni perse con Ed Miliband non solo non sostengono in alcun modo, sui media come in Parlamento, il mandato del leader, ma alcuni di loro – in posizioni di rilievo – non perdono occasione per indebolirla. Il set di messaggi forti che aveva dato al leader una maggioranza interna solidissima ne esce – ancora una volta – annacquato, continuamente ridiscusso, distorto dalla gran parte dei media, che hanno gioco a raccontare nient’altro che i dissidi interni: non è complotto, non è predeterminazione, è il loro lavoro. Rimestare nel torbido.
Il tentativo di deporre il leader eletto da neanche un anno è solo l’ultima di queste golosissime storie. Dall’altra parte della Camera dei Comuni siede un altro partito, quello di governo, che ha appena vissuto uno psicodramma. Siede al governo da sei anni, concorre quotidianamente alla distruzione dello stato sociale, fomenta le divisioni interne all’interno del paese, gode (e soffre, allo stesso tempo) di una xenofobia strisciante, ha “flessibilizzato” in maniera radicale la vita dei cittadini.
Si è spaccato drammaticamente nella campagna su di un referendum indetto per mero calcolo politico dal suo leader, ne è uscito peggio di quanto si pensasse. È inviso da tutti, nel Regno e fuori da esso. Come reagisce? Nel giro di due settimane espone e ricompone le sue divisioni, dando spettacolo sui media senza farsi dettare l’agenda dagli stessi, fa e disfa figure politiche da zero a cento, da cento a zero, sceglie senza troppi drammi – e senza troppo confronto democratico – un Primo Ministro che gode già di fantastica stampa. È amata da tutti, nel Regno e fuori da esso.
Approfittando di ciò che sta accadendo dall’altra parte, dove il leader di cui sopra – nonostante l’incontestato supporto della “base” – deve continuare a resistere agli agguati interni, parlando per forza di cose d’altro oltre all’attualità, il partito di governo – come se appunto non fosse al governo già da soli sei anni – col suo Primo Ministro nuovo di zecca piazza sull’agenda tre messaggi: lotta alla disuguaglianza, opportunità per tutti, ridiscussione delle élite. Guarda un po’: gli stessi tre messaggi che avevano fatto forte il leader di cui stiamo parlando dall’inizio di questo breve raccontino.
Un breve raccontino che ha un solo obiettivo: illustrare cosa NON deve fare un partito e un movimento progressista. Un breve raccontino che non nasconde però anche un grande, enorme, doloroso sospetto: quello della collusione, quello del conformismo. Affinché nulla cambi, affinché tutto rientri sempre in un immobile schema. Di gomma. Ma a noi (noi chi? altra grossa questione) tocca sempre e comunque farcene una ragione? Dobbiamo forse imparare a farne un’arte, a metterla da parte? A metterci da parte? A luglio di ogni anno, ormai regolarmente, è sempre così.