Articolo pubblicato su L’Unità del 19.12.2015
Questo giornale – sì, proprio questo giornale – pubblicò il cosiddetto “listino di borsa”, per la prima volta, il 1° ottobre del 1985: tre colonne, senza commento, nelle pagine dell’economia. Pochissimo spazio rispetto agli altri giornali, molto se si considera che in quegli anni il Pci discuteva se bisognasse oppure no “fuoriuscire dal capitalismo”. La novità provocò sconcerto tra i militanti: ricordo accese discussioni nelle sezioni sull’opportunità della scelta. La sinistra del XX secolo era legata ad un’idea quantitativa, produttivistica e materiale dell’accumulazione della ricchezza. Il denaro era il fattore corruttivo che si inseriva nella dialettica tra lavoro e capitale, generando il famigerato plusvalore. Doveva essere reinvestito solo nella produzione di nuove merci: l’idea che, “in quanto tale”, potesse generare ricchezza, era considerata blasfema, malgrado già tutti frequentassimo la nostra filiale bancaria per controllare i tassi di interesse che ci venivano concessi. Per quella sinistra la finanza era il nemico giurato, parassitario: l’”alleanza tra produttori”, con l’obiettivo del mitologico “nuovo modello di sviluppo”, di certo non comprendeva banche e banchieri.
A sinistra è cambiato (quasi) tutto, da trent’anni a questa parte. Ma l’idea che la finanza “in quanto tale” sia la parte malvagia del capitalismo, si è paradossalmente rafforzata ed estesa, ben al di là della sinistra. Ormai è la società intera ad essere spaventata dalla rivoluzione della globalizzazione che non ha prodotto regole cogenti per i capitali, dai comportamenti arroganti delle merchant bank, dall’esplosione di prodotti finanziari discutibili, dall’assenza di controlli efficaci. Si spiega anche così il fenomeno M5S: gli stessi attacchi alla casta, le recriminazioni per i vitalizi, gli infiniti dibattiti sugli stipendi dei politici, hanno sempre al centro i “soldi” e il loro destino, opaco, oscuro e gravido di sospetti.
Storicamente, noi italiani siamo abbastanza incapaci di parlare apertamente e con serenità dei soldi: di quanti se ne guadagnano, di quanti se ne muovono. Mentre siamo molto propensi al voyeurismo nelle tasche altrui, pretendiamo l’emissione di scontrini ma in genere per il vicino, siamo capaci di gioire per i blitz a Cortina o finanche per lo schianto in Porsche del miliardario di turno (perché l’invidia sociale non fa certo difetto, dalle nostre parti). Sentimenti assai diffusi che fanno leva, oltretutto, su atavici tabù del cattolicesimo. Francesco d’Assisi definì il denaro “sterco del diavolo”, ben prima che Papa Francesco puntasse il dito contro il “dio denaro” (mentre i protestanti lo hanno sempre benedetto come occasione per praticare l’elemosina).
I soldi e le evocazioni tenebrose di un vasto insieme di parole – banche, investimenti, finanza, borsa, spread, interessi, bond, tassi, azioni, debito, mutui, obbligazioni subordinate, assicurazioni, fondi pensione, liquidazione – suscitano un automatico riflesso di repulsione e sospetto, e vengono tutte ricondotte alla categoria macro del “vil denaro”. Un automatismo che trova fondamento anche nella scienza: diverse ricerche di psicologia sociale hanno dimostrato come sia diffusa la tendenza ad attribuire interamente la colpa di ogni ingiustizia sociale ad un indistinto, mostruoso “sistema”, senza alcuno sforzo di analisi o di distinzione. Provate a parlare con un grillino, per credere.
E’ il bias del system blame, per il quale povertà, disuguaglianze, conflitti, dipendono sempre e unicamente da cause esterne, abnormi, praticamente immodificabili, e – in buona sostanza – assolvono il singolo dall’esercizio della volontà e dall’azione personale. Il locus of control – il luogo dove ognuno di noi colloca le responsabilità degli eventi – lo sistemiamo comodamente all’esterno di noi stessi.
Il fenomeno si manifesta spesso quando si parla di denaro, banche, sistema creditizio che – in questo schema – diventano snodi e ingranaggi dell’implacabile “sistema”, e si trasformano in simboli del system blame, di una sfiducia fatale e irrimediabile. Esito paradossale per un mezzo di scambio – il denaro – che, nella notte dei tempi, fonda la sua stessa origine su un inedito e clamoroso atto di fiducia. Che è quello di affidare ad un semplice oggetto il valore assegnatogli durante lo scambio, con la possibilità di riutilizzarlo, con lo stesso valore, in seguito. L’inizio di quel circuito di fiducia che attiviamo quando depositiamo i nostri risparmi in banca, o anche quando discorriamo con serenità del meritato aumento dei nostri redditi. Fiducia in una convenzione, fiducia in uno scambio simbolico tra persone, fattore essenziale della socializzazione e della civilizzazione del genere umano. Fiducia in un sistema riconosciuto da tutti. Che però, naturalmente, non va tradita.
(Hanno collaborato Massimiliano Pennone e Nicolò Scarano)