Articolo pubblicato su L’Unità del 5.12.2015.
Chiariamo subito. Per quanto si possa presumere/immaginare, il Movimento Cinque Stelle è destinato ad esserci e a rimanerci per un po’, nella politica italiana. Nessuno può sottovalutare il fenomeno: se, per diverse elezioni di seguito (nazionali, locali e sovranazionali), un partito intercetta tra il 25% (2013) e il 16% (2015) dell’elettorato, non potrà certo sparire rapidamente, come per incanto. E non basteranno da soli i giudizi severi (Ferrara e Rondolino sugli altri, viva) contro le posizioni infantili, le incapacità amministrative e la demagogia spicciola del movimento ad eliminarlo dalla scena. Qui però interessa capire altro: cioè come (e se) il movimento grillino viene accompagnato (e aiutato) nel suo percorso dalle più classiche dinamiche della psicologia sociale e da svariati bias comunicativi.
DON’T BELIEVE THE POLL
Qualche giorno fa un collega mi ha detto: “Quando parli dei sondaggi sembri mia zia Adele: da trenta anni continua a dirmi di smettere di fumare, ogni volta che la vedo. Una lagna, insopportabile e inutile”. E’ vero, non mi rassegno. Tutti sanno che i sondaggi elettorali sono fallaci (e spesso finti); tutti si scandalizzano o sghignazzano per i loro fallimenti; tutti ricominciano a farli, a compulsarli e a interpretarli il giorno dopo il voto. Fatemi provare un’ultima volta a convincervi della loro inattendibilità strutturale.
Date innanzitutto uno sguardo alla tabella. Le montagne russe sono le medie dei sondaggi sul M5S da tre anni a questa parte; i pallini arancione evidenziano gli ultimi sondaggi leciti, quindici giorni prima delle elezioni (quelli segreti, fino agli exit-poll, consegnano di solito ai grillini cifre iperboliche); i quadratini rossi sono i risultati elettorali veri (politiche 2013, europee 2014, regionali 2015).
Perché queste differenze così marcate tra sondaggi e voti reali? La spiegazione è abbastanza semplice. Come vedete, nel 2013 i grillini vengono testati molto al di sotto (14%) dei voti che prenderanno (25.7%). All’epoca il movimento sta penetrando nella realtà italiana come un fiume carsico, le simpatie per Grillo si sussurrano di bocca in bocca, ma le intenzioni di voto non vengono dichiarate pubblicamente perché non sono sostenute dalla necessaria “riprova sociale”, di cui parleremo dopo (e i sondaggisti non hanno adeguate sequenze storiche per “ponderare” i test). Così accade che il povero Bersani si fida dei poll che tengono a dovuta distanza il M5S, e va a sbattere sul noto, deludente risultato.
Da quel momento il movimento è socialmente sdoganato, e comincia l’impennata dei sondaggi. L’italiano (mediamente 1 intervistato contro 10 rifiuti a rispondere: ricordate sempre che stiamo certificando la morte della scienza statistica) non manifesta più alcun imbarazzo a dichiarare la sua simpatia per Grillo. Che anzi è la più semplice delle dichiarazioni, perché il grillismo è – come è noto – il contenitore ideale di ogni sfogo, delusione o incazzatura: l’antipolitica per definizione. Per cui nei sondaggi il movimento vola. Salvo che, quando si tratta di votare M5S, gli italiani ci pensano un attimo e lo fanno sì, ma in dimensioni assai più contenute. Nel 2014 i voti tanrestano punti sotto3 punti sotto ai sondaggi (e tenete presente che negli ultimi giorni i famigerati sondaggi segreti danno Grillo incollato a Renzi: finirà, come si sa, 41 a 21). Nelle regionali del 2015 lo scarto aumenta: i grillini vengono sondati, nelle regioni al voto, al 21%; prenderanno il 15.6%.
Ciò detto, posso dismettere i panni di zia Adele, e provare a capire da quali bias discendono queste periodiche catastrofi previsionali.
LA RIPROVA SOCIALE
Robert Cialdini, psicologo americano, ha definito la “riprova sociale” come uno dei 6 principi della comunicazione persuasiva. Consiste in questo. Quando ci capita di dover rispondere ad un intervistatore (nella fattispecie, ad un somministratore di sondaggi), la nostra immediata e principale preoccupazione è fare una dignitosa figura. Ci sforziamo quindi di apparire informati sulle tematiche che ci vengono sottoposte, andiamo in cerca al volo dell’opinione che immaginiamo essere condivisa dalla maggior parte delle persone, e la ripetiamo all’intervistatore. Se non siamo esperti di politica, ma abbiamo seguito distrattamente qualche talk la sera prima, probabilmente ricicceremo come nostra la posizione prevalente emersa nel dibattito. O, comunque, quella che ci farà sembrare più delle altre “sul pezzo”. Ricorderemo qualche slogan azzeccato, una frase ad effetto, la collegheremo alle cose sentite la mattina al bar o in ufficio: mixeremo il tutto e forniremo una risposta adeguata. Puntando essenzialmente a fare una buona figura, a non apparire distanti da quella che ci appare essere, al momento, l’opinione dominante.
Così, da sondati, finiamo per non scontentare il quasi-sicuro-vincitore Bersani nel 2013 e il Grillo #vinciamonoi nel 2014. Ma nella cabina elettorale – dove di certo non ci vede più Stalin, ma anche entità superiori ci lasciano ormai campo libero – facciamo semplicemente quello che ci sembra più giusto fare. Di norma razionalmente.
IL CARRO DEL VINCITORE
L’esempio simbolo della sfida tra sondaggi e voto, tra conformismo sociale e ragione, è quello delle europee del 2014. Nell’ultimo mese della campagna l’avanzata di Grillo sembra irresistibile. Il Corriere del 9 maggio lo dà “Primo tra i giovani”, scrive a caratteri cubitali in prima pagina. “Pd Panico Grillo”, titola il Fatto Quotidiano del 14. La Piazza del Popolo semivuota di Renzi viene spammata a più non posso dal #vinciamonoi dei grillini, inzeppati a San Giovanni del giorno di chiusura della campagna elettorale. Il giovane rottamatore, da qualche mese al governo, sembra ingabbiato nella dimensione istituzionale. Sul piano narrativo tutto quadra alla perfezione. Non resta che rispondere nella maniera giusta al sondaggio di turno. Poiché a nessuno piace essere ricordato, sia pure dall’anonimo somministratore, come uno di quelli che “butteranno via il loro voto”, Grillo spopola nelle indagini, ed è premiato dal micidiale bias del bandwagoning (“il salire sul carro dei vincitori”): se tutti stanno andando in quella direzione, se è lì che vanno i vincitori, è bene che ci vada pure io. Salvo poi fare a modo mio quando si tratterà di compiere una scelta che, grazie al segreto dell’urna, salvaguarda la mia reputazione pubblica, ma mi consente una scelta razionale. In fondo è la democrazia, baby.
LA SPIRALE DEL SILENZIO
I bias finora presi in esame nascono da un sentimento fondamentale: la paura di un giudizio negativo da parte degli altri. Non vogliamo passare per ignoranti, perdenti o – peggio ancora – per ignavi (coloro che “mai non fur vivi”, per dirla con un toscano non appartenente ad alcun giglio magico). Sono scenari psicologicamente terribili, che ognuno di noi rigetta. Ma la nostra mente ha altre insondabili risorse cui si affida nei momenti di difficoltà. Così, quando siamo schiacciati dalla paura dell’isolamento e della stigmatizzazione sociale, ci rifugiamo in quella che Elisabeth Noelle-Neumann definisce la spirale del silenzio: se le nostre opinioni sono difformi da quelle esposte dalla (apparente) maggioranza rumorosa, non le abbandoniamo ma ce le teniamo dentro, pronti a manifestarle nell’occasione giusta, quando non ci sentiamo oppressi dal vociare arrogante della massa. Magari non ci sentiremo particolarmente coraggiosi a tenerci dentro i nostri buoni argomenti, ma saggi certamente sì. Anche perché discutere con (apparenti) maggioranze faziose e agguerrite è quasi sempre inutile, oltre che snervante.
LA DE/POLARIZZAZIONE
Provare per credere. Scendete al bar all’angolo, e avviate con amici e avventori una discussione – poniamo – su uno degli ultimi provvedimenti del governo. Vedrete che il bar si dividerà abbastanza rapidamente in due tifoserie: quelli che difendono l’esecutivo e il suo operato contro quelli che invece lo attaccano con veemenza (magari con una prevalenza di questi ultimi, in omaggio al bandwagoning opposizionista dominante). Il fenomeno è tipico e scontato: durante le interazioni di gruppo, l’elaborazione delle informazioni è un processo superficiale e sistematico. È più che altro un’euristica del pensiero. Più la discussione si accende, più le opinioni si estremizzano, e le persone si affidano automaticamente al consenso delle maggioranze, soprattutto se i leader dei diversi campi sono sufficientemente carismatici. Assumiamo acriticamente una delle due posizioni senza interrogarci o impegnarci a trovare un’alternativa, poiché sentiamo l’assoluto bisogno di far parte di uno dei due gruppi e non vogliamo sentirci esclusi. È il bias del pensiero di gruppo, il groupthink, che “annulla” le opinioni personali in favore di quelle estreme ma comuni. Al bar, insomma, siamo molto più impegnati a farci accettare dagli altri che a far funzionare il cervello. Più o meno come quando rispondiamo ad un sondaggio.
E se invece, tra un caffè e un sondaggio, finiamo poi per trovarci (ops!) davanti ad un banchetto (non nel senso della tavola imbandita)? Beh, anche in quel caso è bene fare attenzione alle dinamiche chiuse, rassicuranti e di gruppo, alle bandiere esposte come vessilli, alla verità un tanto al chilo. Meglio, molto meglio una bella e sanadepolarizzazione del dibattito, fatta di dialogo, ascolto delle ragioni dell’altro, immersione in un mondo aperto e plurale. Un mondo che vive di comunicazione, non di propaganda. Sarà la depolarizzazione a sconfiggere gli eserciti dei fanatici quando sarà il momento, amici del Pd.
(Hanno collaborato Massimiliano Pennone e Nicolò Scarano)