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Renzi: non un leader, ma un fenomeno

In un pezzo stupendo di Claudio Cerasa, ho trovato le cause e gli effetti di uno dei modi in cui da tempo, e senza nessun pregiudizio nonostante la mia evidente parzialità nei confronti del Pd, giudico Matteo Renzi.

Cosa vuol dire essere considerati un leader ma non essere riusciti a costruire una rete organica, un team stabile e leale, o a mantenere dei rapporti duraturi? Che un leader in realtà non lo sei. Che sei, più che altro, un fenomeno. Davvero il circo italiano del tardo berlusconismo dal finale tecnocratico non aspettava altro che una figura “rottamatrice”. Di una delle chiese più conservatrici del nostro paese, possibilmente: la sinistra italiana.

Una volta trovata, i proprietari del circo vi hanno pasteggiato e vi pasteggiano insieme descrivendo anche gli atti più minuscoli ed insignificanti del personaggio Renzi, nominandolo, per loro, e tramite un hegeliano procedere da antitesi a sintesi, come la futura Tesi della politica italiana. Davvero il circo ne aveva bisogno, di qualcuno, di “buono” possibilmente, che sostituisse un Berlusconi moribondo anche nelle cronache.

Matteo ha tanti, tantissimi sostenitori. Tra questi anche gente con le palle, per davvero, che gli sta dietro da parecchio, e che, senza malizia, cerca di entrarne nelle grazie. Questi si fanno necessariamente esegeti del renzismo, credono di poterlo prevedere, di poterne essere parte integrante ad attiva. Ma proprio quando credono di aver colto l’organicità e la coerenza di un progetto – questa è la mia impressione – ne rimangono ciclicamente delusi. Perché il renzismo è un grande spettacolo, e i grandi spettacoli devono stupire, cambiare rotta rapidamente, mantenere l’attenzione su di loro fin quando non si esauriscono.

Io non lo se quest’uomo potrà davvero cambiare la sinistra, e in seguito la politica italiana. Credo però, fermamente, che senza una condivisione collettiva, partecipata, sentita di idee, percorsi e progetti attraverso un partito (che è quello che sta provando a fare Giuseppe Civati, motivo per cui lo sostengo da candidato segretario del Pd) – una “mobilitazione cognitiva”, direbbe Fabrizio Barca – non si possa andare molto più lontano dello stare su tutti i canali, risultare primi in tutti i sondaggi, prendere tanti voti, vincere delle primarie o delle elezioni (hai detto niente a sinistra, ma non è abbastanza).

Dimostrazione cristallina di tutto ciò è stato il ventennio appena passato, di cui almeno spero di non vedere mai più gli orrori culturali. “Il problema – dice al Foglio un altro caro amico di Renzi – è che spesso Matteo non riesce a fare quello che dice da una vita. Il bravo capo, dice lui, è quello che mette attorno a se decine e decine di persone più brave di lui. Oggi attorno a Matteo ci sono persone molto brave che però sanno che per essere apprezzate non possono avere eccessive alzate d’ingegno e non devono mai esagerare con l’esposizione mediatica. E’ un limite del renzismo, se così si può dire, ed è per questo che, tranne rari casi, attorno a Matteo ci sono, più che grandi professionisti della politica, gli amici storici, le persone di cui si fida. Ed evidentemente questo non può bastare per conquistare il paese”.

Quello che invece continuo a chiedermi è qual è – aldilà della ‘ventata di freschezza’ mediatica – la solidità e la struttura del pensiero, delle intenzioni e delle strategie politiche di Matteo Renzi. Che all’inizio è stato un (benvenuto) contenitore di tutte le istanze di rottamazione, mentre ora pare un indistinto contenitore di ‘rinnovamento’ e di ‘modernizzazione’, che peraltro si porta dietro pure indigeribili zavorre. I miei amici renziani sono convinti che lo ’statista’ verrà fuori, che non sia ricattabile dai vecchi arnesi, che sarà in grado di dare un’impronta e un’identità a un partito che da quando è nato ondeggia come un derviscio ubriaco. Io aspetto, per ora. Ma confesso che sono ottimista più o meno come quando per arrivare in orario a un appuntamento devo prendere l’autobus a Roma.

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