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Una notte di General Elections: considerazioni sparse

Sono quasi le 22 e ci si incammina dalla Committee Room (una delle case messe a disposizione dai volontari Labour di Southwark per gestire le “truppe” di volontari) verso il Brigade, il locale dove seguiremo lo spoglio, non solo relativo alla nostra costituency -Bermondsey and Old Southwark-, ma di tutto il Regno Unito. Già prima di arrivare al posto dei festeggiamenti, su Twitter compare il primo drammatico exit poll: Conservatives 316, Labour 239. “It can’t be true”, è il primo commento. Ed è anche il mio pensiero, e la mia sensazione.

Nel pub invece si comincia già a bere per dimenticare. Esce il verdetto dal primo seggio: è per il Labour, con la riconferma della Philipson. Poi ci sarà anche il 2-0 e il 3-0, e così via: il Labour sarà in vantaggio sui Conservatives fino alle 5 di mattina.

Poi incominciano ad arrivare i dati dalla Scozia, storicamente un baluardo del Labour più radicato nel mondo operaio. Ed è uno psicodramma. Nicola Sturgeon conquista praticamente tutto il conquistabile: 58 seggi. All’uscita degli exit poll aveva fatto la modesta: “Spero in una buona nottata, ma 58 mi sembrano veramente troppi”. E invece. Perdono il seggio il leader dello Scottish Labour, Jim Murphy, e Douglas Alexander, ormai ex Ministro degli Esteri ombra, battuto dalla ventenne Mhairi Black. Anche Glasgow ed Edimburgo si concedono pienamente agli indipendentisti.

Finalmente, dopo ore di attesa, sonno, birre, male a qualsiasi cosa, arriva il momento cardine della serata in quel di Bermondsey e Old Southwark. C’erano già state voci di ottimismo, e la BBC dava Simon Hughes, numero 2 dei Lib-Dem, come possibile “grande sconfitta simbolica” dello stesso partito arancione.

Alla fine Neil Coyle, un puro Londoner, ragazzo generosissimo e legatissimo al territorio, dà 5000 voti di scarto al vecchio Ras di Bermondsey. Son soddisfazioni, dopo 12 ore di inarrestato canvassing durante il polling day, e di occasionali (solo occasionali per me, purtroppo) round nei due mesi precedenti.

Intanto SNP continua la sua carneficina in Scozia, e quel vecchio leone di Alex Salmond non può che ruggire..

..mentre la previsione (forse l’unica giusta) di Nigel Farage, leader UKIP che non riesce a vincere neanche nel “suo” seggio di South Taneth, Kent, si rivela azzeccata:

Mentre torno a casa è già l’alba, il Tower Bridge dal London Bridge sembra bellissimo, la giornata che sta per nascere no: sarà fredda, nuvolosa, piovosa. Mentre sono sull’N35, il “mio” personale autobus rosso a due piani, Ed Miliband vince a Doncaster North, e vince anche bene. Ma é deluso, chiaramente, e, non a torto, afferma nel discorso l’importanza di “tenere unito il Paese”. Visti non solo i chiari di luna scozzesi, ma anche la disgregazione evidenziata da un multipartitismo rancoroso, soprattutto nelle zone rurali che hanno premiato (non tanto a livello di seggi conquistati, quanto a voti ottenuti) l’UKIP.

Alla fine del conteggio, in tarda mattinata, l’exit poll della BBC, pubblicato alle 22, si rivela drammaticamente azzeccato. Anzi, addirittura non abbastanza generoso con la voracità dei Tories. É il momento delle analisi più o meno serie: come é potuto accadere che “le elezioni più combattute della storia britannica” si trasformassero in questo devastante successo per i Conservatives? Provo a mettere qualche punto, partendo dal più evidente:

– Lo Scottish National Party annienta lo Scottish Labour, da sempre una riserva di seats per ogni maggioranza di centrosinistra, e partito di personaggi storici come Gordon Brown. Dopo la debàcle al referendum per l’indipendenza tenutosi a settembre, lo storico leader e primo ministro scozzese, Alex Salmond, si dimette e lascia lo scettro di “signora di Scozia” all’arrembante Nicola Sturgeon. Il successo, dopo una campagna affilata e combattiva, arriva facile facile, con percentuali imbarazzanti, nelle Highlands come nelle grandi città industriali. Non è un voto semplicemente nazionalista, come i commentatori più frettolosi affermano: è un voto di sinistra, anti-austerity, europeista e progressista, come Salmond e Sturgeon rivendicano di essere con orgoglio tipicamente tartan, e -sì, certo- un voto che vuole chiaramente portare a un nuovo referendum prima della fine del 2020.

– Ben diversa la situazione nei seggi delle Midlands, del Sud, del West. Qui, come Farage riconosce sin dalla primissima chiusura dei seggi, è l’UKIP ad essere fondamentale per la debàcle. La working class storicamente Labour -e qui non si può non riconoscere un demerito storico del blairismo, come della “sinistra che corregge la destra” di Brown-, sentitosi abbandonata, si rivolge al populismo razzista e goffamente liberista -ma allo stesso tempo assistenzialista- dell’UKIP, fortemente condizionato da una retorica euroscetticissima tipica dell’Inghilterra più provinciale. Alla fine l’UKIP però si riconferma solo a Clacton, e perde anche a South Taneth: Nigel Farage si dimette in mattinata e ritornerà a produrre video virali a Bruxelles, per il gusto degli anti-europeisti di tutto il Vecchio Continente. Alla fine sono funzionali solo a far recuperare preziosissimi seggi ai Conservatives, nel 2010 vinti dai Labour o comunque molto combattuti.

– I LibDem sono quelli che tornano a casa con le ossa rotte. Dei 57 seggi, dalla share di governo, dall’ “I agree with Nick” e il grande charme di quel leader giovane e credibile, se ne confermano soltanto 8: un risultato devastante. Clegg si dimette immediatamente in mattinata. Dove sono andati i voti arancioni? In città al Labour (come a Bermondsey, il seggio che ho vissuto da vicino), in provincia ai Tories. E questi ultimi sono seggi che pesano tantissimo, e vanno a donare la maggioranza assoluta a Westminster al prossimo governo conservatore. Cadono in battaglia il già citato Deputy Leader Simon Hughes, ma anche il Deputy Chancellor Danny Alexander: un disastro.

– Ovviamente la sconfitta del Labour non può essere solo accreditata a fattori esterni, sebbene questi abbiano giocato una grossa parte. Avevo giudicato la campagna di Miliband in forte salita, dignitosa, chiara, combattiva, coraggiosa. L’accento sulle disuguaglianze, la lotta ai monopoli (Murdoch gliel’ha fatta pagare), l’approccio verso i disillusi con l’incredibile intervista concessa a Russell Brand. Il popolo Labour ha risposto bene in alcune zone del paese, come a Londra, ma è stato “mangiato” dall’UKIP e da una Scozia troppo spesso dimenticata. I commentatori nostrani di fede renziana, affascinati dal mito blairiano dal “riformismo” -che sarà mai, ‘sto riformismo da solo, chi lo sa- e della Terza Via, si affrettano a desumere che il Labour di Miliband fosse troppo “leftish”, troppo a sinistra. Mi permetto di provocare: forse non lo è stato abbastanza. Sicuramente Ed è stato più a sinistra di quanto sarebbe stato il rampollo blairiano David, ma lo è stato molto timidamente fino all’anno scorso, quando magicamente si è accorto che in Scozia stava per andare a finir male -e non verso destra, ma prettamente verso sinistra-, e che l’UKIP rombava su una working class disgregata da un mercato del lavoro impostato su matrice liberista dal governo conservatore. Spostandoci sulla questione “leadership”, Miliband ha assunto una credibilità quasi emozionante in questi ultimi due mesi: ha dimenticato di farlo nei quasi cinque anni precedenti. L’uguaglianza, la solidarietà, la democrazia, la lotta ai “poteri forti” non sono elementi che maturano nell’elettorato dalla sera alla mattina: ennesima dimostrazione.

– David Cameron ha mostrato di saperci fare. Ha dominato il suo partito dopo un periodo di tallonamento da parte di George Osborne, a destra, e Boris Johnson, il sindaco di Londra, a “sinistra”. Alla fine i due potenziali contenders delle eventuali spoglie dell’attuale leader hanno invece dato una gran mano, dipingendo un partito di super-stars votati alla continuità. La campagna dei Tories si è basata sulla paura: di un’economia guidata da Ed Miliband, di un governo Labour in ostaggio degli scozzesi, di un’Europa sempre più invadente, di una irrazionale “instabilità”. Dalla sua, il governo guidato dalla Coalition ha avuto sicuramente una congiuntura favorevole dal punto di visto economico: moneta forte, crescita stabile, bassa disoccupazione. Tuttavia, dal mio punto di osservazione parziale di studente italiano a Londra, credo che la società inglese pagherà solo tra qualche anno i danni che il cabinet conservatore sta provocando: disgregazione delle comunità, diseguaglianza, classismo, mobilità sociale bloccata. Le rette universitarie sono zompate su del 50%, e saliranno ancora. Gran parte della nuova occupazione si rifà ai cosidetti zero-hour contracts (in breve: non sai mai quando e per quante ore verrai chiamato a lavorare). Il costo delle case è letteralmente alle stelle, e le fasce più basse stanno venendo letteralmente cacciate da città come Londra. Un caro e stimato commentatore conservatore afferma che è il concetto dell’austerità portato in auge dal thatcheriano George Osborne ad aver vinto queste elezioni: credo si sbagli.

Un ultimo appunto sull’affluenza e sui problemi ormai evidenti dello storicamente funzionalissimo sistema elettorale britannico.
Non sono un proporzionalista, ma il sistema elettorale first-past-the-post (collegi uninominali a maggioranza secca: chi arriva primo vince) è ormai fortemente criticato anche qui, da quando è finita l’era del bipartitismo. Ma noi non siamo nel dibattito britannico, e ci piace prendere i dati e i risultati grezzi, strumentalizzarli per le nostre stupide beghe da provincialotti d’Europa. Qui nessuno dice “fascista”, perché la dialettica semplicemente non contempla quel termine, da noi invece abusato, se non in casi veramente particolari.
L’affluenza stavolta nel Regno Unito è stata buona, perchè molti si sono sentiti ringalluzziti dalle nuove offerte politiche (i Green, l’UKIP, l’SNP): la prossima volta, vista la frustrazione di avere un solo rappresentate per quasi quattro milioni di elettori (quello dell’UKIP è un caso eclatante, con tutto il misrespect che io possa nutrire per Farage e la sua banda di truci razzisti e beceri liberisti) sarà così?

Nicolò Scarano
@nicoloscarano

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